«Fenomeno largamente ignorato e termine usato quasi sempre a sproposito senza conoscerne significato, caratteristiche, potenzialità e, chissà perché, usato di solito in accezione negativa». Così viene introdotto il concetto di 'placebo' da Giorgio Dobrilla, primario gastroenterologo emerito dell'Ospedale Regionale di Bolzano e uno dei massimi esperti di questa materia, nel suo volume "Cinquemila anni di effetto placebo. Nella pratica clinica, negli studi controllati e nelle medicine non convenzionali", da poco edito per i tipi di Edra. L'argomento è analizzato approfonditamente in ben 41 capitoli. Significativo il secondo che rende ragione dei 'cinquemila anni' riportati nel titolo che, prendendo come base il codice babilonese di Hammurabi (1792-1750 a.C.) con norme specifiche relative alla medicina e alla chirurgia, dimostra come la 'medicina sacerdotale e magica' (malattie come segno dell'ira degli dei da cui difendersi con amuleti e talismani) si integra poi alla convinzione di un'origine anche naturale delle patologie, con la nascita della 'medicina empirica' (basata su guaritori esperti nell'uso di piante ed erbe). Nell'insieme si hanno pratiche terapeutiche non derivanti da ipotesi eziopatogenetiche ma che, apportando i benefici attesi, si sono spesso tramandate nella tradizione popolare fino a oggi. Dunque, afferma Dobrilla, il placebo è il «principale protagonista della storia millenaria della medicina» e «continua a essere operativo anche oggi. La differenza dal passato è che oggi il placebo e i meccanismi d'azione a esso sottesi si conoscono sempre meglio e che in particolare le scoperte degli ultimi decenni risultano davvero sorprendenti».
Il volume spazia dall'etimologia latina di origine biblica del termine "placebo" (piacerò) - contrapposto a quello di "nocebo" (farò del male) - alla prima enunciazione teorica proposta dal medico britannico John Haygarth (1740-1827) il quale dimostrò con veri e propri trial in doppio cieco 'ante litteram' che i miglioramenti riscontrati nei pazienti con rimedi di ciarlatani erano dovuti esclusivamente alle aspettative dei soggetti malati e alla fiducia da loro riposta nel rimedio somministrato ma che, d'altra parte, l'effetto placebo poteva riguardare non soltanto le terapie false, ma anche i rimedi attivi che producono risultati reali e comprovati. Vengono poi fornite alcune definizioni attuali: «Placebo è ogni procedura deliberatamente attuata per ottenere un effetto o che, anche senza che se ne abbia nozione, svolge un'azione sul paziente o sul sintomo o sulla malattia, ma che oggettivamente è priva di ogni attività specifica nei confronti della condizione oggetto di trattamento. Tale procedura può essere attuata con o senza consapevolezza che si tratti di un placebo» e «Il placebo è anche usato per costituire un controllo adeguato nella ricerca clinica». A rendere più sfaccettato e complesso l'argomento, Dobrilla affronta il tema della consapevolezza o meno del medico di somministrare un placebo (ossia un farmaco non attivo ma della cui efficacia può essere convinto in buona fede e, specularmente, del dolo di chi sa di esercitare pratiche terapeutiche ingannevoli non a fin di bene ma richieste dai pazienti). Esistono poi i placebo impuri, spiega Dobrilla, che «sono invece farmaci "veri", composti chimici o preparati fitoterapici regolarmente in commercio, dotati di attività farmacologica, e quindi non inerti, la cui azione è però ininfluente nei confronti del sintomo o della malattia che è l'obiettivo del trattamento». Cos'è allora l'effetto placebo? Secondo Moerman (2002) è «l'insieme degli effetti psicologici e fisiologici in risposta al significato attribuito al trattamento». Ciò che emerge da una vasta letteratura (non sempre affidabile) è che, in molti casi, l'effetto placebo porta a un effettivo miglioramento della sintomatologia non solo soggettiva ma anche rilevabile oggettivamente.
La trattazione dell'argomento è vastissima. Dobrilla nei vari capitoli affronta temi come il ruolo svolto dalle endorfine e dagli endocannabinoidi, il rapporto tra placebo e malattie con dolore come sintomo prevalente o non prevalente o la relazione con le patologie chirurgiche, la psicoterapia e la psicanalisi, lo sport e il doping, l'omeopatia, l'agopuntura. «Il medico in buona fede, oltre che avere come obiettivo esclusivo la salute psicofisica del malato, dovrebbe conoscere il fenomeno del placebo in tutte le sue sfaccettature e quindi usare, se crede, nella sua pratica professionale i placebo puri o impuri in modo consapevole, a ragion veduta» osserva l'autore nell'ultimo capitolo. «Solo così la scelta cadrà sui soggetti più adatti (se identificabili) e sulle patologie più suscettibili alla terapia placebica. Solo così il medico non commetterà inoltre l'errore di sostituire con un placebo farmaci già disponibili dotati di efficacia specifica, e quindi significativamente maggiore, e solo così non correrà il rischio di ritardare involontariamente (ma non per questo meno colpevolmente!) tempestivi e talora decisivi approfondimenti diagnostici. Purtroppo le informazioni che lo studente di medicina riceve in merito al placebo durante gli anni di corso di laurea e di specializzazione sono assolutamente carenti e frammentarie o assenti del tutto».
Arturo Zenorini