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Politica e Sanità

21 Settembre 2017

Concorrenza e titolarità, l’esperto: resta problema interpretativo su compatibilità


Rispetto alla formulazione di titolarità della farmacia che emerge a seguito della Legge sulla concorrenza c'è un «problema interpretativo» riguardante la incompatibilità, prevista nella legge n. 362/1991, «con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato». Incompatibilità che, se interpretata in senso restrittivo, può, per estremo, limitare la partecipazione alle società titolari di farmacia ai soli «disoccupati, studenti, imprenditori o professionisti». La riflessione è stata lanciata dall'Osservatorio Iusfarma in un articolo a firma dell'avvocato Claudio Duchi, dell'omonimo studio legale. Infatti, alla lettera c) dell'art. 8 della legge n. 362/1991 viene affermato che «la partecipazione alle società titolari di farmacie è incompatibile "con qualsiasi tipo di rapporto di lavoro pubblico o privato"». Ma tali disposizioni, secondo l'articolo 7, vengono applicate «per quanto compatibili». Il punto è che «se si ritiene che l'incompatibilità dei soci con qualsiasi tipo di rapporto di lavoro pubblico o privato sia compatibile con l'estensione alle società di capitali dei soggetti titolari di farmacie dovrà concludersi che soci diversi dai farmacisti idonei potranno essere solo coloro che siano disoccupati o studenti, oppure imprenditori e professionisti. Si tratta, quanto a questi ultimi, di una categoria non certo ristretta, ma enormemente inferiore a quella di chi è legato da un qualsiasi rapporto di lavoro». Con una ulteriore derivazione: «Tutte le società di capitali di medie o grandi dimensioni non potrebbero intestarsi una o più farmacie poiché tra i loro soci vi sarebbe necessariamente una preponderanza di persone legate da un rapporto di lavoro con la società stessa o con un qualsiasi soggetto terzo».

Due allora sono i punti: da un lato, «sarebbe totalmente privo di logica, ad esempio limitare la partecipazione ad una Srl titolare della farmacia di famiglia agli studenti, ai disoccupati od ai professionisti negandola a chi abbia un rapporto di lavoro in un settore che nulla abbia a che vedere con la farmacia, ma certo sarebbe operativamente possibile. L'illogicità della distinzione tra le due posizioni, cioè tra quella di chi potrebbe divenire socio e quella di chi invece risulterebbe escluso, è conseguenza del fatto che i soci delle società di capitali sono, lapalissianamente, soci capitalisti. Come tali nulla hanno a che fare con l'incompatibilità riferita dall'art. 8 della legge n. 362/1991 ad un rapporto di lavoro, incompatibilità che evidentemente riguarda il caso di chi sia socio di una società di persone e sia, come tale, destinato a gestire personalmente la farmacia. Dunque, se la compatibilità (dell'incompatibilità) richiamata dalla legge n. 124/2017 deve essere intesa in senso logico-sistematico basterebbero le osservazioni appena esposte per concludere che non è compatibile con la natura e la stessa ragion d'essere delle società di capitali il divieto di parteciparvi riguardante chi abbia un qualsiasi rapporto di lavoro; al contrario, se la compatibilità riguarda la applicabilità pratica del divieto, pur nella sua illogicità, la conclusione sarà opposta, nulla impedendo di vietare che ad una società per così dire familiare partecipi il figlio del titolare della farmacia che sia dipendente di un'azienda produttrice di computer piuttosto che dirigente di una casa automobilistica».

Ma va detto che «la norma non distingue tra piccole e grandi società di capitali ed inoltre è inserita in una legge per definizione pro-concorrenziale, il che significa che deve necessariamente essere interpretata nel senso di risultare applicabile: qui il cerchio si chiude. Per quanto si è detto, infatti, ritenere compatibile con la titolarità di farmacia in capo alle società di capitali il divieto di cui alla lettera c) dell'art. 8 della legge n. 362/1991 significa rendere inapplicabile di fatto l'estensione della titolarità delle farmacie a tali società il che non è una conclusione possibile anche secondo gli ordinari criteri di interpretazione delle norme i quali devono ricercare l'interpretazione che renda le norme applicabili e quindi utili. Con una battuta si potrebbe suggerire alle associazioni di categoria di propugnare l'interpretazione restrittiva poiché, se passasse, nessun grande gruppo e nessuna catena potrebbe divenire titolare anche di una sola farmacia ma, appunto, è soltanto una battuta».

Francesca Giani

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