nov82017
Troppi farmaci agli anziani, Perticone (Simi): scarsa percezione dei rischi
"Deprescribing", ovvero ridurre il numero di farmaci nei pazienti (soprattutto anziani) in politerapia. È stato questo uno dei temi centrali a Roma, durante il recente Congresso nazionale della Societa italiana di Medicina Interna (SIMI). Non è solo una dichiarazione di intenti ma un progetto già messo in atto dalla società scientifica, come spiega
Francesco Perticone, presidente SIMI e docente di Medicina interna presso l'Università "Magna Græcia" di Catanzaro. «L'operazione consiste nella sensibilizzazione di gruppi di medici, sia del territorio sia ospedalieri, i quali vengono coinvolti in piccoli gruppi per verificare la loro percezione della politerapia» afferma. Infatti, prosegue Perticone, «il problema è che noi medici non abbiamo questa percezione, cioè non siamo realmente consapevoli di quanti farmaci prende il nostro paziente. Da un'analisi recente dello studio REPOSI (Registro POliterapia SIMI) è emerso che circa il 60% dei pazienti ricoverati, sia nelle unità operative di medicina interna sia di geriatria, in media entrano assumendo 5 farmaci e vengono dimessi con 7 (ma ci sono soggetti che arrivano anche a 10-12 farmaci diversi)». Qual è la causa di questo fenomeno? «Tale aumento prescrittivo risente sicuramente delle consulenze specialistiche» sostiene il presidente Simi. «Ogni specialista aggiunge la propria terapia senza tener conto di quanto già in essere e spesso il medico curante, ospedaliero o il medico di medicina generale (Mmg), non hanno la sensibilità di verificare se quel farmaco in più può essere eliminato o no. In parte» sottolinea Perticone «questa scarsa propensione alla riduzione dei farmaci è anche un atteggiamento dettato dalla medicina difensiva (un altro problema che deve essere affrontato in termini più ampi). Comunque sia, la politerapia, di fatto, significa che non si sta operando al meglio rispetto agli obiettivi terapeutici prefissati, nel senso che si prescrive un farmaco per curare meglio il paziente ma, con la politerapia, c'è la forte probabilità di ingenerare reazioni avverse che innescano poi l'assunzione di altri farmaci in un vortice senza fine». Proprio a causa della scarsa percezione del rischio di interazioni farmacologiche esistono vari siti dove, inserendo i nomi dei farmaci assunti dal paziente, in pochi secondi vengono elencate le possibili interferenze. «Quindi, anche l'utilizzo di questa possibilità potrebbe aiutarci nel 'deprescribing' e, a tale proposito, la Simi ha preparato un testo di terapia medica di imminente uscita dove, tra l'altro, saranno contenuti proprio gli schemi per evidenziare le possibili interazioni tra molecole, al fine di migliorare l'efficacia terapeutica». Dunque, riassume Perticone, «il nostro progetto parte proprio da questa problematica: ci si è messi intorno a un tavolo con dei facilitatori che ci aiutano a esprimere quello che conosciamo e pensiamo. Poi, in base a un debriefing piuttosto ben costruito, possiamo riuscire ad avere questa percezione».
La politerapia, del resto, comporta molti altri problemi rilevanti. «Specie nel soggetto anziano il problema dell'aderenza diventa importante, in quanto assumere da 6 a 8 farmaci - con magari 12, 13 o 14 somministrazione quotidiane - inevitabilmente porta il paziente a eliminarne qualcuno» ricorda Perticone «e non dimentichiamo che la politerapia si realizza soprattutto nel paziente in età avanzata, quando più frequenti sono i problemi di memoria e quindi non sempre l'aderenza è facilitata dall'assunzione di molte molecole, anzi il contrario». E non è tutto. «La politerapia ha una correlazione lineare con il rischio di caduta nel paziente anziano (tanto maggiore quanto più è elevato il numero di farmaci prescritti). Questo è grave perché, al di là del rischio di fratture ossee, molti di questi pazienti sono in terapia con anticoagulanti per la fibrillazione atriale e un trauma cranico aumenta il rischio di sanguinamenti ed emorragia endocranica, con tutto quello che ne consegue. Pertanto la politerapia rappresenta un fattore di rischio di per sé ai fini della sopravvivenza» rileva il presidente SIMI.
Uno dei principali problemi attuali, trattato al Congresso SIMI, «come ha condiviso lo stesso Ministro Lorenzin, è stato quello della cronicità e della multimorbilità» ricorda Perticone. Circa un anno e mezzo fa è stato licenziato il 'Piano nazionale della cronicità', un modello gestionale particolarmente interessante, definito 'chronic care model' che gli americani hanno suggerito oltre 20 anni fa proprio per la gestione di queste condizioni, osserva Perticone. «In questo contesto il paziente diventa parte attiva non solo del proprio processo di cura ma anche di atteggiamenti volti alla prevenzione secondaria e terziaria. Il modello però» spiega l'internista «necessita di una stretta interrelazione tra ospedale e territorio, in quanto il paziente dimesso dall'ospedale con un carico di cronicità deve essere affidato al Mmg ma anche allo specialista territoriale. Si erano previsti sistemi come l'assistenza domiciliare (che non sempre funziona allo stesso modo in tutte le regioni italiane) e anche il coinvolgimento delle associazioni di volontariato che possono svolgere un ruolo importante in questo senso. Lo scopo è quello di portare il paziente al centro delle cure: un concetto di cui si parla da tempo ma che non sempre è applicato, in quanto la nostra mentalità è sempre organo-centrica o patologia-centrica e non rivolta all'individuo nella sua interezza e complessità, che comprende anche aspetti sociali ed economici». Lo stesso Ministro ha ammesso al Convegno che questo modello non ha dato i risultati sperati, riferisce Perticone, per cui si sarà costretti a rivedere il tutto, tanto che si parla di un 'Piano della cronicità 2.0' in cui si vorrebbe che il medico internista si facesse carico anche della gestione territoriale di questi pazienti, nell'ambito di un progetto ampio e ambizioso.
Un altro argomento dibattuto sono state le malattie rare. «L'aspetto che riguarda l'internista è che la maggior parte dei ragazzi che ne sono affetti raggiungono la maggiore età e, di conseguenza, è necessario che, superata questa 'soglia', ci sia qualcuno che si prenda cura di loro come faceva il pediatra. Si configura così la cosiddetta 'medicina di transizione', tutt'altro che semplice perché il medico dell'adulto si confronta con il paziente mentre il pediatra si confronta non solo con il piccolo paziente ma anche con i genitori, in un rapporto diverso al quale il ragazzo è abituato e di cui noi medici degli adulti non abbiamo consapevolezza» spiega il presidente SIMI. «Per cui è necessario un cambiamento culturale che deve essere affrontato contestualmente dai pediatri e dagli internisti, specie nella condivisione della fase iniziale dell'affidamento per ottimizzare non solo gli aspetti terapeutici ma anche quelli emotivi e psicologici dei pazienti e dei loro familiari» conclude Perticone.
Arturo Zenorini