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Politica e Sanità

30 Novembre 2011

Liberalizzazione e concentrazione


A circa un anno dalla legge Bersani, visto anche il succedersi di scoop con al centro la farmacia, è il caso di riparlare dei meccanismi che il provvedimento ha messo in moto. Non sempre così virtuosi, nemmeno per il cittadino

L’indagine di Altroconsumo, probabilmente al di là delle intenzioni, offre l’occasione per riprendere il discorso sulle leggi del mercato applicate al servizio farmaceutico. Che l’ingresso di nuovi attori nella distribuzione del farmaco comporti di per s� un vantaggio per il cittadino è un assunto teorico che, per la verità, non ha trovato finora grandi riscontri. A cominciare, per esempio, dallo stabilirsi di una concorrenza vera e propria. L’Europa, ricorda uno studio di Health Policy, ha per lungo tempo regolamentato l’accesso alla titolarità della farmacia, la sua attività e anche i margini di profitto. Recentemente, in molti paesi si è pensato di invertire la rotta, per stimolare la competizione. E’ il caso di Islanda e Norvegia, che hanno avviato la deregolamentazione tra il 1996 e il 2001, permettendo la titolarità di più farmacie e la competizione sul prezzo. Il risultato più immediato, in entrambi i paesi, è stata l’integrazione orizzontale del mercato e la concentrazione; in Norvegia, inoltre, si è osservata l’integrazione verticale, con l’arrivo dei grossisti nella proprietà delle farmacie. Nel 2004, riporta lo studio, due gruppi in Islanda e tre in Norvegia controllavano rispettivamente l’85 e il 97% del mercato (Anell A. Deregulating the pharmacy market: the case of Iceland and Norway. Health Policy. 2005 Dec;75(1):9-17).

Insomma, si è passati senza colpo ferire da una corporazione, come oggi usa dire, a un oligopolio. Ed è bizzarro pensare che questa possa essere vista come una risposta accettabile nel momento in cui si parla di una situazione ingessata, nella quale però sono circa 15.000 gli attori in campo (le farmacie). Del resto lo stesso studio conclude che questo tipo di assetto rende difficile continuare a supportare la funzione sociale della farmacia, per esempio causando la chiusura dei punti vendita meno redditizi. Nello stato del Minnesota (Stati Uniti), dal 1992 al 2002, l’assetto proprietario della farmacie è cambiato: all’inizio del periodo vi erano due farmacie di comunità per ciascuna farmacia appartenete a una catena, nel 2002 il rapporto era di 1 a 1. Senonch�, le grandi catene tendono a basarsi in modo diretto sull’andamento della popolazione per decidere se aprire o chiudere un esercizio, con il ch� si ha la massima concentrazione nelle aree più popolate, dalle quali tendono a scomparire le farmacie di comunità. Nel contempo però, il calo demografico è una spinta alla chiusura delle farmacie indipendenti ma è poco probabile che queste possano essere sostituite dagli esercizi della grandi catene. In altre parole, conclude lo studio, questa dinamica potrebbe causare difficoltà nell’accesso al farmaco per le popolazioni lontane dalle grandi aree urbane e suburbane. D’altra parte anche mettere sotto tensione i prezzi, nelle dinamiche di mercato, serve il più delle volte a rompere il fronte e far uscire di scena i concorrenti più deboli. In realtà, niente è più avverso alla concorrenza del mercato stesso, che semmai tende al cartello. Infatti, quando rimane un solo attore sulla piazza, a che servono gli sconti? Forse varrebbe la pena di riconsiderare il ruolo della pianta organica anche alla luce di queste considerazioni. E chiedersi se un professionista dipendente da un’azienda che ragiona in termini di mera redditività, come del resto logico e inevitabile, sia poi così motivato a promuovere il farmaco meno caro, o a sacrificare una vendita al fine di dedicarsi alle richieste del cittadino. Se ne riparlerà.

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