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11 Aprile 2024 L’efficacia dei beta-bloccanti nel trattamento dei pazienti colpiti da infarto del miocardio, considerata uno dei pilastri nella cura di eventi cardiovascolari, sembra che debba essere ridimensionata
L’efficacia dei beta-bloccanti nel trattamento dei pazienti colpiti da infarto del miocardio, considerata uno dei pilastri nella cura di eventi cardiovascolari, sembra che debba essere ridimensionata. Se ne è parlato al Congresso dell’American college of cardiology dove sono stati presentati i risultati di due studi, Reduce-Ami e Kardia-2, che potrebbero modificare in modo rilevante il trattamento – rispettivamente – nel post-infarto e dell’ipertensione arteriosa.
Beta-bloccanti, in discussione efficacia nella prevenzione secondaria dell'infarto
In particolare, l’efficacia dei beta-bloccanti nel trattamento dei pazienti colpiti da infarto del miocardio, considerata uno dei pilastri nella cura di eventi cardiovascolari, sembra che debba essere ridimensionata. Il beneficio di questi farmaci nel prevenire un secondo attacco di cuore o ridurre la mortalità nei pazienti meno gravi è stato infatti messo in discussione nello studio Reduce-Ami - pubblicato sul “New England Journal of Medicine” e presentato al congresso dell’American College of Cardiology in corso ad Atlanta. «L’utilizzo dei beta-bloccanti nel post infarto è una pratica clinica consolidata. Si tratta di una classe di farmaci che agisce inibendo i recettori beta-adrenergici e inducendo la riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. L’efficacia terapeutica di questi farmaci si basa però, ancora oggi, sull’effetto dimostrato in studi clinici datati, condotti prima della diffusione delle attuali tecniche di rivascolarizzazione con lo stent, dell’implementazione sistematica delle statine, della disponibilità di efficaci farmaci per la prevenzione primaria e secondaria e delle moderne terapie antiaggreganti» afferma Ciro Indolfi, past-president della Società italiana di cardiologia (Sic). «Da quando questi nuovi trattamenti sono diventati accessibili, il valore della terapia con beta-bloccanti nei pazienti con infarto miocardico, senza insufficienza cardiaca, è stato messo in dubbio, ma fino ad oggi erano disponibili solamente studi osservazionali che fornivano risultati contrastanti».
«Reduce-Ami rappresenta, pertanto, il primo studio moderno sui benefici dei beta-bloccanti ed evidenza la mancanza di efficacia di questa terapia nel ridurre il rischio di morte o infarto nei soggetti colpiti da infarto del miocardio, trattati con angioplastica coronarica che hanno una normale contrattilità del cuore» aggiunge Pasquale Perrone Filardi, presidente Sic e direttore della Scuola di specializzazione in Malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli.
Lo studio Reduce-Ami, randomizzato, multicentrico e in aperto, ha valutato l’efficacia della terapia con beta-bloccanti in 5.020 pazienti con età media di 65 anni, con infarto miocardico acuto trattati con angioplastica e con una normale funzionalità contrattile del muscolo cardiaco. La ricerca - condotta da settembre 2017 a maggio 2023 in 45 centri in Svezia, Estonia e Nuova Zelanda - ha confrontato il decorso clinico del gruppo dei pazienti ai quali era stata prescritta una terapia con beta-bloccanti rispetto a quelli trattati senza questi farmaci. «I risultati hanno mostrato che, a circa 3 anni e mezzo dall’inizio dello studio, l’incidenza di decessi e di un secondo infarto non sono stati significativamente differenti nei due gruppi. Non sono state registrate differenze di rilievo neanche nel numero di ospedalizzazioni per fibrillazione atriale, per insufficienza cardiaca, ictus o per interventi di impianto di un pacemaker» spiega Indolfi. «A seguito di questo studio non sono però stati riscontrati segnali negativi riguardo la sicurezza del trattamento» sottolinea Perrone Filardi «e riteniamo che le evidenze siano ancora a favore dei beta-bloccanti per i pazienti con infarto miocardico di grandi dimensioni, che presentano insufficienza cardiaca. Per i pazienti con normale contrattilità del cuore, questo studio stabilisce, invece, che non ci sono indicazioni che l'uso di routine dei beta-bloccanti sia vantaggioso. Potrebbe però essere troppo presto per escludere definitivamente questo tipo di terapia dagli strumenti a disposizione nella prevenzione secondaria e sono, pertanto, necessari ulteriori studi».
Ipertensione, nuovo farmaco in sperimentazione per terapia di lunga durata
In riferimento ai pazienti che non riescono a tenere sotto controllo l’ipertensione arteriosa, seguendo con costanza le terapie prescritte, in futuro potrebbero essere risolutivi trattamenti di lunga durata che eliminerebbero il problema della scarsa aderenza ai trattamenti antipertensivi. Si tratta di una sfida sanitaria importante se si considera - che dopo circa un anno - fino al 50% dei pazienti abbandona la terapia antipertensiva, con conseguente riduzione della possibilità di proteggere cuore e cervello da infarto e ictus. Una prospettiva di miglioramento arriva da un nuovo farmaco, zilebesiran, attualmente in sperimentazione, al centro dello studio Kardia-2. «I risultati della ricerca sono molto incoraggianti: la nuova molecola interferisce con l’RNA-messaggero bloccando nel fegato la produzione di angiotensinogeno, una proteina che è in cima alla catena dei processi organici che alla fine provocano il rialzo dei valori pressori. Riducendo la disponibilità di questa proteina nel sangue si abbassa anche la pressione» spiega Perrone Filardi.
«L’innovativa terapia si somministra con una semplice iniezione sottocutanea, simile a quella che si fa con l’insulina, e la sua azione dura a lungo perché è sufficiente ripeterla a distanza di 3 o addirittura 6 mesi. Con questa modalità di somministrazione, il trattamento sarebbe in grado di ridurre in modo significativo i valori di pressione massima senza bisogno di altre cure». Lo studio Kardia-2, in doppio cieco e controllato con placebo, presentato ad Atlanta da Akshay S. Desai, professore associato dell’Harvard Medical School, ha valutato l’efficacia e la sicurezza di zilebesiran in 672 pazienti, in aggiunta alla terapia in corso. «I pazienti arruolati, al momento della prima somministrazione, avevano valori pressori, in media, di 143 mm Hg e hanno presentato una riduzione media fino a 18 mm Hg della pressione sistolica che, in molti casi, si è mantenuta stabile fino a 6 mesi. Questi risultati aprono la strada alla rivoluzione dei farmaci biologici anche nel mondo dell’ipertensione che ne aveva più bisogno vista l’insufficiente aderenza all’assunzione di farmaci per tutta la vita» conclude Perrone Filardi.
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