Politica e Sanità
15 Novembre 2017Sono tante le questioni che preoccupano i farmacisti relativi alla legge concorrenza e uno di questi riguarda la possibilità da parte di cliniche, poliambulatori, case di cura di partecipare in qualche modo a società autorizzate all'esercizio della farmacia. Se, almeno in alcuni casi, sembra stiano iniziando a muovere i primi passi, che cosa dice la norma a proposito del rapporto tra medici e farmacie? In che modo garantire l'incompatibilità? Abbiamo girato la questione a Paolo Leopardi, avvocato e consulente Utifar, a margine del suo intervento al Convegno dell'Utifar, che si è chiuso sabato a Bologna. In generale, va detto che «piaccia o meno, la legge Concorrenza ormai è stata approvata e difficilmente potrà essere modificata, almeno nel breve periodo. Occorre allora cercare di cavalcarla, cogliendone le opportunità, laddove ci sono, e contrastandone le criticità». Certo è, continua Leopardi, che «un problema di chiarezza esiste: se il capo di gabinetto del ministero della Salute, dopo 15 giorni dalla pubblicazione della legge, afferma che bisognerà chiedere un parere al Consiglio di Stato per avere una interpretazione sulla applicazione di alcune norme, è evidente che, almeno su alcuni punti, il dettato non è chiaro». Lasciando non solo spazio a dubbi «con possibili rischi di successivo contenzioso, come d'altra parte abbiamo visto in altre occasione, per esempio nel concorso straordinario», ma anche a situazioni che non sembrano in linea con «la ratio stessa della norma».
Come per esempio per quanto riguarda la possibilità di una partecipazione, in qualche modo, da parte di cliniche, case di cura, e simili: «La ratio della legge è chiara: medico e farmacista non possono convivere. Meno chiara è la formulazione» o meglio quanto «la norma di fatto vieta». «Per come è oggi indicata la misura, un medico non può partecipare a una società titolare di farmacia. Ma per una società che sia partecipata da medici o società in cui siano presenti medici e che, a sua volta, possa partecipare in una società che gestisce di fatto la farmacia, non esiste un divieto esplicito. E questo è quello che sta accadendo e che faranno cliniche, case di cura o società che gestiscono ambulatori». Una situazione che si crea, continua l'avvocato, perché «le incompatibilità indicate dalla norma sono in capo a chi stipula la società, al socio della società che è autorizzata all'esercizio farmaceutico, mentre non si estendono alla loro provenienza, alle società da cui derivano». Quale soluzione allora? «Sarebbe necessario allargare in modo codificato e non interpretativo il concetto che l'incompatibilità tra farmacia e attività medica, che senza alcun dubbio è rivolta alle persone fisiche, sia rivolta anche alle società che hanno all'interno della compagine sociale medici».
Ma, se una modifica alla legge non è al momento ipotizzabile, su un eventuale parere del Consiglio di stato non si hanno elementi, in che modo è possibile intervenire in questa direzione? «Fornendo un indirizzo all'attività dei notai. Nulla vieta infatti di inserire e ribadire nello statuto delle società limiti soggettivi alla partecipazione del capitale o alla trasferibilità delle quote o delle azioni, emulando quello che è già accaduto nelle società tra professionisti - per esempio nel caso di ingegneri, architetti, e così via». Questo è un punto importante perché proprio «se si ponesse già a monte l'obbligo del notaio di verificare che le incompatibilità siano in capo oltre che al socio anche alle società da cui derivano, probabilmente sarebbe una bella soluzione». E questo può essere fatto «sollecitando una riflessione e una indicazione sul punto da parte del Consiglio del notariato, che ha una grande capacità di uniformazione del diritto e a cui i notai fanno riferimento creando delle vere e proprie prassi - difficilmente disattese». E su questo, è emerso durante il convegno, «potrebbe esserci una spinta e un intervento da parte di Federfarma».
Francesca Giani
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