Politica e Sanità
27 Febbraio 2019Come cambierebbe il tasso di occupazione dei farmacisti se nei luoghi privati di degenza e cura dove sono utilizzati i farmaci venisse resa obbligatoria la presenza della figura professionale del farmacista? Cosa accadrebbe se fosse riformato il corso di studi accogliendo le osservazioni spesso reiterate dell'industria circa la necessità di avere un laureato con un maggiore grado di specializzazione? Che impatto potrebbero avere nuove prospettive occupazionali sul fabbisogno di professionisti, oggi indicato dalla Fofi pari a zero? Sono queste alcune delle riflessioni sollevate dal Movimento nazionale liberi farmacisti durante l'audizione di ieri in Commissione Cultura della Camera, nel corso dell'esame in sede referente delle proposte di legge per rivedere le modalità di accesso alle Università. Per inquadrare correttamente la problematica, si legge nella Memoria del Mnlf, consegnata alla Camera, «è necessario sviluppare alcune riflessioni circa la natura legislativa dell'ambito lavorativo dei farmacisti. Principalmente, l'impiego avviene in farmacia privata, in farmacia comunale, nell'industria, ma anche negli esercizi di vicinato (parafarmacie), nell'insegnamento e in altri settori della distribuzione intermedia, oltre che, nell'ambito pubblico (ospedali, asl, e così via)». Tuttavia, a «non lavorare come direttori, titolari o dipendenti di farmacia è il 22% dei farmacisti», con la farmacia che di fatto copre la maggior parte degli sbocchi occupazionali. Ma, in questo quadro, continua il documento, «l'attuale assetto legislativo non permette un aumento del numero degli esercizi: fatta eccezione per il concorso straordinario del "Cresci Italia" durante il Governo Monti che rispetto alle previsioni di 5000 nuove farmacie, non potrà permettere l'apertura di più di 5/600 farmacie economicamente sostenibili, non ci sono all'orizzonte espansione del numero di farmacie in Italia». Per altro, la situazione generale vede un contesto in cui «in diversi ambiti ove viene dispensato il farmaco, per legge non eÌ prevista come obbligatoria la presenza del farmacista e quel compito che prevede competenze tecniche scientifiche date dal corso universitario viene svolto da altri privi di tale formazione».
Poi c'è tutto il tema della parafarmacia, le cui «potenzialità sono frenate dall'impossibilitaÌ di dispensare un numero maggiore di farmaci. Ma quale sarebbe l'impatto per l'occupazione del farmacista italiano se la legislazione relativa alla dispensazione dei farmaci fosse riformata e fosse consentito al farmacista che lavora negli esercizi di vicinato di cedere anche farmaci che necessitano di ricetta medica, ma pagati direttamente dai cittadini?».
Da qui la posizione rispetto all'accesso all'università: «In presenza di un assetto legislativo che non permette di allargare le opportunità d'impiego» la richiesta di «regolare attraverso un numero chiuso l'accesso al corso di laurea in farmacia eÌ immotivata» e pare «strumentale a mantenere invariato l'attuale assetto legislativo». Con effetti discriminatori: «tra coloro che rimarrebbero fuori dall'università, chi avrebbe maggiori disponibilità economiche potrebbe scegliere di iscriversi ad altra università europea. Nemmeno la scelta di stabilire uno sbarramento dopo il primo anno del corso di studi sarebbe in grado di evitare questo "effetto collaterale" in dileggio alle pari opportunità e all'uguaglianza a cui s'ispira la nostra Costituzione». Per questo, la richiesta è di «rimuovere ove possibile il numero chiuso nelle facoltà italiane e di respingere quella relativa ai farmacisti». L'Italia, che è nei posti più bassi nella classifica europea per numero di laureati e mostra invece un tasso di abbondono degli studi universitari, soprattutto maschili, tra i più alti, «ha la necessitaÌ vitale per crescere di allargare il numero dei portatori di competenze, ha necessitaÌ di aprirsi alla competizione delle conoscenze».
Francesca Giani
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