Farmaci e dintorni
24 Marzo 2014Il trattamento precoce con inibitori della neuraminidasi negli adulti ricoverati con influenza, sospetta o accertata, ha ridotto la mortalità di un quarto durante la pandemia H1N1 del 2009-2010, secondo uno studio su pubblicato su The Lancet respiratory medicine. Stella Muthuri, ricercatrice alla Divisione di epidemiologia e salute pubblica dell’università di Nottingham, Regno Unito, e prima firmataria dell’articolo, ha raccolto dati da 78 studi svolti su oltre 29.000 pazienti ricoverati in 38 Paesi durante l''influenza H1N1 ricorda «Quel ceppo ha inizialmente alimentato i timori di una pandemia a elevata mortalità come quelle dei secoli passati», fortunatamente poi il virus si è rivelato molto meno letale del previsto, con tassi di mortalità simili a quelli dei comuni ceppi stagionali. «L’oseltamivir blocca le neuraminidasi, glicoproteine sulla superficie virale, inibendo la replicazione e la patogenicità del virus dell''influenza A e B. Un altro inibitore della neuraminidasi, lo zanamivir ha efficacia similare» prosegue la ricercatrice. Col nome commerciale di Tamiflu, il composto è stato brevettato da Gilead Sciences, che ha poi ceduto i diritti a Hoffmann-La Roche, finanziatrice dello studio dal quale emerge che i soggetti oltre i 16 anni di età trattati con Tamiflu in ospedale avevano una mortalità del 25% inferiore rispetto ai non trattati. Ma non solo: in un sottogruppo di pazienti trattati con oseltamivir nei primi due giorni di ricovero la mortalità era addirittura dimezzata. «Gli attuali orientamenti terapeutici dovrebbero incentivare l’uso empirico precoce degli inibitori della neuraminidasi negli adulti con influenza sospetta o confermata ricoverati in ospedale, anche se la maggioranza dei casi viene raramente ospedalizzata nelle prime 48 ore» continua Muthuri, consigliando l''inizio precoce della cura anche nei pazienti adulti ambulatoriali con sintomi particolarmente accentuati oppure ad aumentato rischio di complicanze. «Ulteriori studi, invece, sono necessari nei bambini per confermare l''adeguatezza degli attuali dosaggi e la durata della terapia in termini di efficacia clinica» conclude la ricercatrice.
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