Politica e Sanità
02 Dicembre 2013Sono una quarantina le farmacie rurali che hanno già portato i libri in tribunale, ma molte «stanno reggendo a denti stretti» e, con un’attività basata prevalentemente sulla ricetta rossa, un reddito medio compreso tra i 25 e i 35mila euro – «un insegnante spesso viene pagato di più» -, ritmi di lavoro «usuranti, perché siamo a disposizione della popolazione h24», il futuro sembra incerto e gli occhi sono puntati sulla nuova remunerazione, «che per noi è la vita». A tracciare il quadro Alfredo Orlandi (foto) presidente Sunifar, che a Farmacista33 racconta: «La crisi ha in molti casi accentuato il divario tra farmacia urbana e rurale anche se c’è da sottolineare un fenomeno. In paesi come la Spagna, che se la passano più o meno come noi, se non peggio, la crisi ha colpito soprattutto la farmacia di piccole dimensioni. Da noi, in uno stato di sofferenza che riguarda tutti, più colpite sono alcune farmacie di maggiori dimensioni, con una gestione più complessa, dipendenti e così via. La rurale ha costi fissi minimizzati - il titolare fa tutto, anche le pulizie - ma dal canto suo si trova in uno stato di maggiore precarietà: la sua attività è legata prevalentemente alla ricetta rossa, non solo perché ha poco extra farmaco, ma anche perché nei piccoli centri abitati si concentra la parte più debole, con anziani e bambini, e spesso meno produttiva della popolazione – il lavoro di solito lo si trova altrove. Anche sui farmaci rimborsabili dal Ssn, farmacie del centro città, per esempio, fanno più cassetto, perché molti preferiscono – e possono permetterselo - pagare il farmaco evitando la fila dal medico». Poco cassetto e redditi bassi: «I redditi medi nelle farmacie rurali sono tra i 25 e i 35mila euro ma in diversi casi si attestano sotto i 15mila euro. Gli insegnanti della scuola media vengono pagati di più». Con per di più disagi legati alle difficoltà di spostamento: «Per qualsiasi pratica c’è la necessità di spostarsi perché i servizi sono altrove, ma qui l’inverno dura di più: c’è neve quando nel resto d’Italia il clima non è ancora rigido». La nostra «è una professione usurante: i piccoli centri abitati spesso non hanno altro che la farmacia: la guardia medica qui non c’è e anche il medico di famiglia viene solo negli orari di ambulatorio. Per la popolazione siamo spesso l’unico punto di riferimento per problemi di salute e così ti vengono a cercare anche di notte o durante le feste, perché tanto sanno dove abiti». La crisi quindi non ha fatto che accentuare i disagi e anche per le rurali distribuzione diretta e liberalizzazione hanno contribuito: «Nel nostro caso, direi per un 70% la distribuzione diretta e per un 30% la liberalizzazione. Ma abbiamo anche due grossi problemi: l’indennità di residenza e il fatturato di riferimento dove ogni regione fa da sé. Nel primo caso – si parla di circa 9-10 Regioni - si passa da amministrazioni come Emilia Romagna e Veneto che riconoscono il trattamento base previsto dalla legge 221/68, circa 468 euro all’anno, a Regioni come Molise o Abruzzo che danno tra i 15 e i 16mila euro, con alcune amministrazioni che si attestano tra i 3mila e i 9mila. Così pure per i metodi di conteggio del fatturato Ssn: per noi punto di riferimento dovrebbero essere le ricette rosse, ma c’è chi considera anche la Dcp, l’integrativa, o addirittura i ticket. Ma il fatto è che per le rurali della Puglia o del Veneto le criticità sono le stesse». In questa situazione di disagio, «fondamentale è la partita della remunerazione con la quale si gioca la sopravvivenza. Ma il problema non è avvertito allo stesso modo da tutte le farmacie: presidi più grandi, che fanno più “cassetto”, sono meno interessate a cambiare lo stato di cose».
Francesca Giani
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