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Politica e Sanità

15 Febbraio 2014

Ordine commercialisti sui concordati: meno successo del previsto


Il concordato in continuità, l’istituto utilizzato dalle due farmacie fallite in provincia di Parma che prevede, in caso di crisi aziendale, la continuità dell’attività tramite un accordo con i creditori, è uno strumento che si è rivelato farraginoso e ancora oggi non ha avuto il successo sperato. A fare il punto Carlo Bianco, commercialista e presidente della commissione Gestione crisi d''impresa e Procedure concorsuali dell’Ordine dei commercialisti di Milano che spiega: «Un vincolo fondamentale all’utilizzo del concordato in continuità è che la continuità dell’impresa non peggiori la situazione dei creditori rispetto all’alternativa della liquidazione dell’azienda. E questo va dimostrato attraverso un piano che deve essere attestato da un professionista sotto la sua responsabilità». Un piano che «deve contenere un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività dell’impresa e le risorse finanziarie necessarie, con le relative modalità di copertura». Requisito per nulla banale: secondo l’analisi contenuta nel “Nuovo concordato preventivo a seguito della riforma", Quaderno della Scuola di alta formazione Luigi Martino, dell’Ordine dei commercialisti di Milano (n. 43), che fa il punto sullo strumento, «in presenza di margini negativi dopo la detrazione dei costi diretti le soluzioni della continuità risiedono nella possibilità di aumento dei volumi di vendita o nell’intervento sul processo produttivo modificando il rapporto lavoro/materie», con un’eventuale ristrutturazione dell’impianto produttivo attraverso una riduzione del personale e una massimizzazione del processo. Inoltre, «in assenza di margini sufficienti a coprire gli oneri finanziari, tali soluzioni risiedono invece nella modifica, rispetto all’alimentazione del processo produttivo, del rapporto capitale proprio/capitale di terzi», che deve essere a favore del primo, «o nella riduzione della durata del ciclo del capitale circolante», tra giorni di giacenza di magazzino, giorni di incasso da clienti, giorni di pagamento debiti a breve. Altro aspetto è che, continua Bianco, «i concordati in continuità normalmente prevedono la soddisfazione dei debiti in quote che possono essere del 10, 20 o 30%» e che devono convincere i debitori chiamati ad approvare o meno, in udienza davanti al giudice o nei venti giorni successivi, il piano. «Dire se si tratta di uno strumento utile e conveniente per le farmacie è difficile. Certamente, con la circolare della Banca d’Italia del novembre dell’anno scorso, è stato riconosciuta la possibilità per le banche di continuare i rapporti bancari o aprire nuove linee di credito in favore di chi ha avviato la procedura e questo è positivo. In generale, va detto che, in Italia, la maggior parte delle farmacie sono imprese individuali che comportano, in caso di fallimento, il fallimento personale del titolare, con conseguenze devastanti sulla persona, che risponde con il proprio patrimonio dei debiti della farmacia. Il concordato in continuità quando è possibile è un’alternativa. Ma, da quello che abbiamo potuto vedere, anche se in generale su tutte le imprese e non nel dettaglio sulle farmacie, finora non ha avuto il successo sperato. In generale, chi pensa al concordato ha già compiuto i consueti passaggi prodromici, come il trasferimento dell''azienda ad altri soggetti tramite l''affitto che prelude la vendita dell’attività. Chi non è riuscito a compiere questi passaggi tenta il concordato in continuità, sperando che si realizzino le condizioni del piano, per evitare il fallimento».

Francesca Giani

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