Politica e Sanità
21 Novembre 2014Pur in concentrazioni minime (nanogrammi), i farmaci sono stati rinvenuti in fiumi, laghi, mari e nell'acqua potabile. Gli effetti sull'uomo e sulle altre specie animali sono poco conosciuti: un'esposizione cronica di principi attivi a basse concentrazione e le loro interazione a livelli molto bassi sono poco note. Utilizzare in maniera appropriata i medicinali può senz'altro essere d'aiuto e, in questa direzione, diventa importante il ruolo di farmacisti e medici, ma soprattutto è auspicabile, anche per una migliore conoscenza della ecofarmacovigilanza, una maggiore collaborazione tra queste professionalità. La riflessione arriva da Giampaolo Velo, già professore di farmacologia dell'Università di Verona e direttore dell'unità di farmacologia medica dell'Aoui di Verona, esperto di ecofarmacovigilanza, che abbiamo intervistato.
Partiamo dalla definizione. Che cos'è l'ecofarmacovigilanza?
Ecofarmacovigilanza può essere definita come la scienza e tutte le attività relative a rilevazione, valutazione, comprensione e prevenzione delle reazioni avverse o di altri problemi legati alla presenza di farmaci nell'ambiente, che possono avere effetti su uomini e animali. Sono vari gli studi che hanno rilevato la presenza di farmaci nell'ambiente: cito la fluoxetina nel Tamigi, la cocaina nel Po, antidepressivi, antiepilettici e statine nel Niagara e nei laghi Ontario ed Erie, ma ci sono altri casi. Una parte non indifferente dell'inquinamento da farmaci è determinato dal loro scorretto smaltimento. Ma va sottolineato che i farmaci sono eliminati in parte come tali dall'organismo attraverso le urine e le feci e possono entrare nell'ambiente. Per questo occorre agire alla fonte: se l'uso dei farmaci, sia in ambito umano sia veterinario, viene fatto con maggiore appropriatezza e in maniera più razionale, ponderando tutti i fattori - beneficio, rischio, costi, comprendendo quindi anche i dannicosti ambientali - l'impatto potrebbe essere minore.
Un ruolo importante quindi per medici e farmacisti, che per altro hanno anche la possibilità di comunicare con il cittadino.
Credo che sarebbe necessaria una maggiore sensibilizzazione al fatto che il farmaco va prescritto e utilizzato quando è davvero necessario. Mi viene in mente per esempio l'uso non appropriato che spesso si fa degli antibiotici. E questo è un principio che riguarda il medico, nella fase di prescrizione, ma anche il farmacista, nel suo contatto con il paziente. È chiaro che il farmacista non può entrare nel merito della prescrizione, ma credo che se si rendesse conto che l'indicazione del medico può portare a problematiche o non risulta appropriata sarebbe auspicabile che si mettesse in contatto con lui. Credo che tra queste due professioni non dovrebbero esserci barriere stagne - anche se devo dire che la mia sensazione è che invece ci siano - e anzi troverei positivo che si istituisse un collegamento strutturato tra operatori sanitari. Una collaborazione certamente porterebbe a risultati positivi nel mondo farmaco.
Poi c'è il settore dell'automedicazione. Che ruolo gioca il farmacista?
Altro aspetto in cui il farmacista entra fortemente in gioco perché può rivestire un importante ruolo di indirizzo dell'assistito, soprattutto in termini di uso corretto del farmaco, ma anche di sensibilizzazione dei pazienti verso un atteggiamento di consumo razionale. Vorrei fare poi un'ultima riflessione: sarebbe corretto iniziare a impostare una cultura della prescrizione che veda l'indicazione in ricetta del numero totale di compresse (o altro) necessarie, con un riferimento sia a quantità sia a durata della terapia. Anche se al momento non è possibile consegnare farmaci non confezionati, credo che l'approccio comporterebbe una maggiore attenzione e potrebbe anche contribuire ad un miglioramento nel contesto "farmaci-ambiente".
Francesca Giani
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